Italiani in fuga: cosa ci guadagnano loro, cosa ci perde l’Italia.

Lunedì sera mi sono trovata a chattare con altri blogger italiani sparsi per il mondo sul fenomeno degli italiani all’estero. Eravamo stati invitati ad animare la discussione live di  #Penelope, un programma di Rai.tv che ha dedicato una puntata agli Italiani in Fuga. Tra la chat e le interviste via skype sono venuti fuori dei punti interessanti, li riprendo perché è un tema a me caro, che avevo trattato nei post “Generazione Erasmus, 1000 euro e dei cervelli in fuga” eCosa (non) è un expat

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I punti emersi direi che sono questi:

Italiani in Fuga? Non proprio. Non tutti si riconoscono in questa definizione. Si parte per cogliere delle opportunità. La partenza è figlia della libertà di scegliere, di un atto di volontà. Almeno in chat è emerso un atteggiamento positivo e proattivo.

Ma di quali opportunità stiamo parlando? Per alcuni sono opportunità economiche. Ma non solo, si parte anche perché in certi settori l’innovazione non passa per l’Italia. Se vuoi lanciare una start up nel settore digitale, per esempio, in Italia ti collochi alla periferia del mercato. Farai più fatica, per non parlare degli ostacoli burocratici e fiscali. Il mercato è globale, ma l’occhio del ciclone è locale.

Qual è il requisito per buttarsi nel mercato globale? Sia che si voglia partire sia che si voglia tentare dall’Italia, è indispensabile l’inglese! Tutti d’accordo su questo punto. Ho lanciato una chat “l’inglese studiato sui libri di scuola resta una lingua morta come il latino. La tv pubblica dovrebbe mandare in onda i programmi in lingua originale con i sottotitoli”. Accordo plenario in chat: i programmi in lingua orginale sarebbero un importante strumento di educazione linguistica in Italia. Pensate cosa saremmo oggi se Friends e Beverly Hills 90210 fossero stati mandati in onda in inglese eheh 🙂

Dunque quelli che partono sono cervelli in fuga? Tutta la community ha rigettato questa etichetta. Chi sono poi i cervelli in fuga? All’inzio dottorandi e ricercatori, poi il termine ha coperto anche l’esodo dei neolaureati. E gli altri? In realtà tra gli italiani all’estero ci sono moltissime professioni, più o meno qualificate. Non scordiamoci tutti i commessi, ristoratori, camerieri, artisti ecc… La community era abbastanza concorde: chiamateci emigranti. E perfavore non chiamateci expat, che è un’altra cosa… aggiungo io (vedi Cosa (non) è un expat) .

Se avete voglia potete rivedere QUI la puntata di #Penelope che si è conclusa con il video della canzone Povera Italia di Giacomo Lariccia. Se non avete tempo di vedere la puntata, vi invito a vedere almeno il video della canzone perché nei sottotitoli riporta dati sul fenomeno dell’esodo degli italiani in questa crisi europea: quanti sono, quanto abbiamo investito per formarli, quando producono all’estero…insomma quanto ci perde l’Italia in termini economici! Dati presi dal blog http://fugadeitalenti.wordpress.com/

Concludo citando la frase di Napolitano che ha ispirato la puntata: “Un’esperienza all’estero è fisiologica, quello che è patologico è restare fuori”. Per me partire non è affatto fisiologico, è fisiologico starsene a casa propria. Per partire vuol dire che sai bene almeno una lingua straniera e che l’hai certificata, il che di solito è conseguenza di lezioni private. Un esame di certificazione riconosciuto a livello internazionale costa tra i 200 e 300 euro. È fisiologico se fai l’università che ti facilita con l’Erasmus o se fai un Master che implica un tirocinio all’estero. Un’esperienza all’estero è un’opportunità di crescita personale formidabile, ma definendola fisiologica si sminuisce l’impegno di energia e di finanze che si mettono in campo per partire. Voi che ne pensate?

Il prossimo lunedì la puntata di #Penelope sarà dedicata alle storie del Made In Italy e di tutti quegli italiani che decidono di investire sul proprio Paese anche grazie al web. Titolo della puntata sarà #IoRestoQui. Sono proprio curiosa…

Erano stati invitati alla chat  #ItalianiFuori:

10 commenti
  1. Pantarei ha detto:

    Interessante, Francesca. Una cosa che vorrei aggiungere è proprio sulla credenza che all’estero sia tutto meraviglioso e che forse per questo sia considerato fisiologico partire: un mito che andrebbe sfatato per sempre. Ogni paese ha pro e contro e in base al peso che il singolo attribuisce a questi si prendono le decisioni. Ma rimane sempre una questione molto personale.

  2. Gi ha detto:

    Molto interessante. Mentre studiavo (sono ingegnere) avrei voluto fare esperienze all’estero, ma non potevo permettermele. Avendo trovato lavoro prima della laurea poi ho lasciato perdere. Ho investito i miei primi stipendi in un corso di inglese (privato e ovviamente costoso, perché se lavori le lezioni le puoi fare solo di sabato mattina, ed essendo sempre a rischio straordinari anche gli orari in tarda sera non è detto che siano percorribili). Anche io non sono d’accordo sul definire le partenze “fisiologiche”. C’è uno sforzo enorme.

    • Esatto Gi, esempio reale di come ci voglia tempo e soldi per imparare l’inglese quel tanto da poterlo usare a livello lavorativo.

  3. Gi ha detto:

    (Piccola aggiunta: la cosa più utile, comunque, è stata obbligarmi a vedere film in lingua originale e a parlare con nativi trasferiti qui. Se mi fossi basata solo sul corso sarei “a caro amico”.) Per carità, niente recriminazioni, mi sono laureata e ho trovato un bel lavoro, ma mi sarebbe comunque piaciuto poter arricchire un po’ i miei orizzonti!

    • Con me sfondi una porta aperta Gi, guardare film/fiction in lingua originale é l’unico modo agevole per farsi l’orecchio e imparare la lingua viva.

  4. Ciao Francesca,
    Sono “Viaggiareleggeri”, e vorrei aggiungere una chiosa riguardo alla lingua: si’, e’ necessario conoscere una lingua straniera, che di solito e’ l’inglese, ma non mi riconosco nelle cifre che hai indicato, nel ricorso alle lezioni private, e nella necessita’ di certificazione.

    Per iniziare: solo in Italia vedo far storie agli italiani riguardo alla loro certificazione in lingue straniere. Il mio primo colloquio telefonico (cui ne e’ seguito uno faccia-a-faccia), per il lavoro che mi ha portato in Inghilterra, e’ stato in inglese col direttore finanziario dell’azienda. Non mi ha chiesto se sapessi l’inglese: c’era stato uno scambio di email che aveva posto le premesse – anche linguistiche – per una collaborazione. E quando ho cambiato lavoro, nessuno mi ha chiesto se sapessi l’inglese: se non lo conosci, non hai accesso a certi posti di lavoro.

    Nel dicembre 1999 (lavoravo ancora in Italia), per curiosita’, diedi l’esame TOEFL. Semplice. E inutile.

    Riguardo alle lezioni private: in anni pre-Internet, in cui tra l’altro l’inglese non mi servi’ per lavoro (1990-inizio 1997), mi tenni in esercizio leggendo tutto quel che trovai in inglese, guardando tutti i film in lingua originale che passavano in tv, e andando in vacanza in moto in Gran Bretagna. Che ci sia bisogno di lezioni private, ora che Internet ha moltiplicato le possibilita’ di parlare non solo inglese, ma qualsiasi lingua, mi pare un paradosso.

    Infine, spezzo una lancia sulla testa degli insegnanti d’inglese. Non tutti, ma tanti (anche delle piu’ rinomate scuole di lingua inglese in Italia), cascano in quegli errori tipici che gli stranieri fanno meno spesso, avendo (noi) imparato prima a scrivere le parole inglesi, poi a pronunciarle: whose/who’s, its/it’s, your/you’re, receive/recieve, etc.

    Ci si rivede su Penelope, se mi reinvitano!

    • Ciao Viaggiareleggeri! Grazie della tua testimonianza, fa piacere sentire che con tanta dedizione ce la si fa anche senza corsi ad hoc. Per le certificazioni, credo che dipenda dai settori, in tutto ció che ruota intorno all’istituzionale o alle ONG é obbligatorio allegare una certificazione. Nel settore privato in diversi colloqui mi hanno detto che avevano selezionato il mio curriculum impressionati anche dalle certificazioni e dalle esperienze all’estero. Non é richiesto a priori, ma ha il suo peso quando mandi il curriculum per essere contattato. Dipende anche con quante lingue ti proproni: se mandi una lettera motivazionale in inglese ben scritta e ti proponi per italiano/inglese é un conto, ma se come me rispondi a un annuncio in inglese per una posizione che richiede fluency in italinao, francese e spagnolo é opportuno allegare un certificato.
      Rispetto a quello che racconti “(1990-inizio 1997), mi tenni in esercizio leggendo tutto quel che trovai in inglese, guardando tutti i film in lingua originale che passavano in tv, e andando in vacanza in moto in Gran Bretagna.”Mi chiedo: ma la tv italiana passava film in inglese?! 🙂 Non li ha sempre tutti sottotitolati? Sui soggiorni all’estero di cui dici, é appunto uno degli investimenti finanziari che non tutti possono permettersi. Comunque convengo sugli insegnanti di inglese, se sono bravi possono trasmettere molto almeno in quanto a grammatica. A presto 😉

  5. > Mi chiedo: ma la tv italiana passava film in inglese?!

    Italia 1, credo fosse il lunedi’ sera in seconda serata. Anche MTV trasmetteva in inglese, e i miei viaggi estivi in UK erano un’occasione per caricarmi di “bike mags” e di libri rari inglesi.

    > Sui soggiorni all’estero di cui dici, é appunto uno degli investimenti finanziari che non tutti possono permettersi.

    Nel periodo in oggetto io facevo l’operaio, ero pagato poco e non amavo buttar via denaro, quindi ti garantisco che, se potevo permettermi io quei viaggi, chiunque avesse avuto uno stipendio avrebbe potuto permetterseli (facendo a meno di spese superflue come discoteca, pub ogni giorno, auto e moto nuove ogni anno).

    Ovviamente devi viaggiare senza compagni di viaggio italiani, altrimenti limiti le tue opportunita’ di parlare la lingua del posto che stai visitando. Lo stesso principio vale per Vietnam e Cambogia, Indonesia e Malesia, e ogni altro posto che ho visitato per vacanze o per lavoro: impari e scopri di piu’ in un’ora senza compagni di viaggio che in una settimana accompagnato da qualcuno. Per dire, alla Oktoberfest di Saigon non ci tornerei mai, con qualcuno che parla le mie lingue…

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